SOCIETÀ

Ritorno al futuro. Prosperità, convivialità, condivisione: per una decrescita gentile

Spesso siamo tentati di pensare che la realtà nella quale viviamo sia statica e immutabile, che sia sempre stata così come la conosciamo, e che le regolarità e le leggi che, empiricamente o ideologicamente, osserviamo nella pratica siano universalizzabili e valide anche sul piano teorico.

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Inutile dire che non sempre è così. Anzi, tale narrazione è spesso completamente avulsa dalla realtà “vera”, e risponde tuttavia a un atavico bisogno umano: quello di comprendere e dominare (o credere di farlo) il mondo che ci circonda, ingabbiandolo in regole semplici e uniformi.

Un esempio? La crescita economica: ossia, la ricerca del profitto personale come unico orizzonte ideale verso cui tendere. Un paradigma che – soprattutto nel mondo occidentale – permea pressoché ogni aspetto della vita dell’individuo, imponendo una visione del mondo totalmente incentrata sull’andamento (incrementale) della produzione e del consumo, unici indicatori di ciò che è desiderabile e ciò che va rifuggito.

Se ci si rivolge alla storia, tuttavia, si scopre che questa configurazione economica non è trasversale né ai tempi né alle culture, ma è il frutto di una precisa congiuntura storico-politica e della concomitante emersione di una precisa visione del mondo.

Come mette in luce Susan Paulson, professoressa al Center for Latin American Studies dell’università della Florida, «quasi nessuna delle società che si sono avvicendate nel corso della storia umana è stata così incentrata sulla crescita; al contrario, se guardiamo alla storia della nostra specie notiamo che la maggior parte di esse ha tentato di porre un limite alla crescita della popolazione e ai livelli di consumo per poter preservare le risorse disponibili. L’obiettivo primario è stato, in molti casi, cercare di evitare grandi cambiamenti, mantenere un equilibrio».

«Certo – aggiunge Paulson – sono stati molteplici i periodi storici che hanno visto l’espansione delle società umane: pensiamo all’antica Grecia o all’Impero Romano, ad esempio. Quel che stiamo vivendo oggi potrebbe essere considerato proprio uno di quei periodi di rapida espansione. Studiare le vicende storiche dell’umanità ci permette di riconoscere come questa tendenza non sia certo un evento universale e necessario, ma piuttosto un fenomeno storicamente situato».

Crescere (ma per quanto?)

Ma cosa si intende per ‘crescita’? Il concetto, oggi carico di significati politici, indica in realtà un processo naturale. Ogni essere vivente, infatti, attraversa fisiologicamente un periodo di crescita; questo, tuttavia, ha un inizio e una fine, e si conclude nella morte e nella cessione della materia organica ai cicli biochimici che mantengono in vita gli ecosistemi del pianeta.

«Solo nel Ventesimo secolo, in effetti, la tendenza a crescere ha assunto una valenza economica», sottolinea la professoressa. «A quell’epoca, infatti, alla perdita di importanza di molte forme di spiritualità si è sostituito un crescente scientismo. Il concetto di Prodotto Interno Lordo (PIL) si è trasformato da mero strumento tecnico in una sorta di divinità, e da quel momento è stato impugnato come arma in moltissime occasioni: ad esempio nel corso della Guerra Fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti, oppure nell’obbligo di ‘sviluppo’ (secondo i canoni occidentali) imposto alle comunità del cosiddetto Terzo Mondo».

La crescita del PIL, dunque, è progressivamente divenuta l’unica misura del successo o del fallimento delle nazioni, e ogni aspetto della vita pubblica e privata è stato ridotto a una variabile di questo onnipresente indicatore economico. Il principale problema teorico legato al PIL, tuttavia, è che si fonda esclusivamente sulle valutazioni monetarie, che passano per i mercati, di ciò che si produce e consuma senza tenere in debita considerazione né cosa si riduce né i mezzi adottati per raggiungerlo. Paradossalmente, si realizza un’inversione tra mezzi e fini: se la crescita economica, stimolata dalla continua ricerca del profitto, è dipinta come l’unico mezzo per raggiungere tutti gli obiettivi desiderabili, allora essa diventerà l’unico vero fine da cui discendono tutti gli altri. E così, in particolar modo negli ultimi decenni, la crescita è costantemente aumentata – seppure a ritmi sempre più lenti, a livello globale – al prezzo di un crescente esaurimento di risorse materiali e di energia, con altissimi costi ambientali e sociali.

Visioni del mondo

L’insostenibilità di questo sistema è ormai evidente: persino la European Environmental Agency ha recentemente riconosciuto la necessità di esplorare strade alternative, per tentare di scindere il tentativo di migliorare il benessere umano da un modello di crescita così gravoso.

Le alternative, in effetti, ci sono: una è la ben nota teoria della decrescita, di cui Susan Paulson è studiosa e sostenitrice: «La maggior parte dei propugnatori della ‘decrescita’ non ha come obiettivo innescare una generale recessione del sistema economico globale – eventualità che, viste le condizioni attuali, avrebbe conseguenze disastrose –, ma ritiene sia necessario ridurre rapidamente la quantità di materia ed energia divorata dalle società umane. L’incremento del tasso di trasformazione di questi materiali (e degli scarti che da questi processi derivano) è stato per molto tempo strettamente collegato all’aumento del PIL; l’obiettivo è dunque ‘disaccoppiare’ questi due fenomeni, e individuare una diversa modalità di sopravvivenza in un mondo finito, nel quale le leggi della termodinamica non possono essere ignorate. In altri termini, si tratta di una sfida teorica: liberarsi dall’ossessione e dall’idolatria della crescita fine a sé stessa».

«Lo aveva ben compreso l’italiano Antonio Gramsci», ricorda Paulson: «Se ai lavoratori, ai cittadini, si comunicassero con chiarezza tutti i sacrifici cui è necessario sottostare per favorire la crescita, nessuno accetterebbe un simile stato di cose. Eppure siamo stati convinti – strategia retorica ben più persuasiva – che ognuno di noi sia un elemento fondamentale per il funzionamento di un complesso ingranaggio. Questo ha fatto sì che la presunta necessità di perseguire la crescita venisse interiorizzata e considerata necessaria per guadagnare dignità e successo, così che ognuno decidesse spontaneamente di offrire enormi sacrifici a questo altare».

Ma quandanche si mostrasse – come sta finalmente accadendo – che questo modello di sviluppo è problematico e ingiusto, molti sarebbero comunque riluttanti ad abbandonarlo. «A volte, cambiare costa fatica – ammette Paulson –, perfino quando è evidente che lo status quo implica un’elevata dose di sofferenze e ingiustizie e sembra portarci dritti verso un esito disastroso. Molte delle agende politiche ‘verdi’ riflettono esattamente questa difficoltà: apportano modifiche sul piano economico e tecnico, ma non mettono minimamente in discussione i principi ideologici che hanno portato all’attuale emergenza. Quel che teorie alternative come la decrescita suggeriscono è, invece, un rinnovamento prima di tutto sul piano dei valori, che andrebbe attuato a tutti i livelli – individuale, comunitario, nazionale, globale».

Futuri possibili

«È essenziale, inoltre, che si intervenga sull’educazione e sull’informazione. Se non compresa, la ‘decrescita’ può incutere timore: come è possibile preservare il nostro livello di benessere se non vi è più una costante crescita economica a sostenerlo? La questione, posta in questi termini, mi sembra fuorviante. Dovremmo piuttosto spiegare al ‘cittadino medio’ che l’alternativa ad una crescita economica infinita è una diversa visione del mondo e una nuova conformazione della società; che possiamo iniziare a immaginare un futuro diverso, fatto di convivialità, di condivisione, di cura, piuttosto che di crescita».

Ad oggi, simili scenari sono pressoché utopistici. Gli effetti della prolungata pervasività di un modello di sviluppo profondamente insostenibile stanno già influendo sulle nostre vite – pensiamo alla pandemia, agli effetti sempre più evidenti del cambiamento del clima, alle numerose guerre per le risorse che stanno scoppiando in tutto il mondo. Eppure, vi sono anche segnali di speranza: «Sono molte le realtà e le esperienze ‘conviviali’, le comunità in cui l’obiettivo primario non è la crescita materiale. Molte di queste sono comunità tradizionali, che conservano credenze e riti nei quali si sottolinea l’intimo legame tra l’uomo e il mondo naturale, che in quanto tale è degno di diritti e di rispetto. Molti, inoltre, sono gli esperimenti in corso, alcuni dei quali fortemente innovativi, che stanno esplorando nuovi percorsi. Non sono certa che, nel poco tempo che abbiamo, riusciremo a far fermare o rallentare il treno su cui siamo; ma la speranza è che almeno qualcuno di noi riesca a scendere in corsa, e si avvii su sentieri alternativi».

Bisogna avere il coraggio di cambiare rotta: smettere di inseguire l’attuale utopia che promette una crescita infinita in un mondo limitato e rivolgersi verso nuove utopie, nelle quali la società umana riesca a vivere in armonia con l’ambiente naturale che la circonda e la ospita.


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