Reuters
Per quanto difficile e ingeneroso sia ridurre all’osso la complessità della diplomazia climatica, ogni Cop, ogni anno, ha un tema che emerge alla vigilia come più forte (o più scomodo) di altri e che tiene banco durante i negoziati. La finanza climatica ha caratterizzato quella dello scorso anno, tenutasi a Sharm el-Sheikh, in Egitto, che è stata anche la “Cop africana”. Dopo anni di battaglie, il fronte dei Paesi del Sud del mondo ha ottenuto il fondo di riparazione alle perdite e ai danni (loss and damage) subiti da un cambiamento climatico causato in larghissima parte dai Paesi industrializzati.
I dettagli di funzionamento di quel fondo andranno discussi proprio alla 28esima conferenza delle parti delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, che sarà invece la “Cop di un petrostato”: inizierà il 30 novembre a Dubai e sarà presieduta da Sultan Al Jaber, ministro dell’industria e della tecnologia e inviato speciale per il clima degli Emirati Arabi Uniti, nonché amministratore delegato di Adnoc, compagnia petrolifera nazionale di Abu Dhabi. Al Jaber è anche fondatore e presidente di Masdar, la Future Energy Company di Abu Dhabi che investe in energia rinnovabile.
Per quanto riguarda le azioni di mitigazione, ovvero la riduzione delle emissioni di gas climalteranti che riscaldano il pianeta, le tensioni della Cop28, tra interessi da difendere e promesse da mantenere, sono riassunte tutte nella figura del suo presidente.
Molti osservatori ritengono che i primi prevarranno nettamente sulle seconde e che la Cop araba si risolverà in una globale operazione di greenwashing tra gli applausi compiaciuti di un’assemblea che non lascerà spazio alle contestazioni: “per più di un decennio gli Emirati Arabi Uniti hanno preso di mira i diritti degli attivisti portando alla completa chiusura dello spazio civico, a severe restrizioni della libertà di espressione online e offline e alla criminalizzazione del dissenso pacifico” scrive Human Rights Watch.
Sultan Al Jaber, Reuters
Se la Cop27 si era conclusa con una vittoria sul fronte dell’adattamento, con l’istituzione del fondo loss & damage, sul fronte della mitigazione la sconfitta era stata pressoché totale: nel documento finale i combustibili fossili venivano menzionati una sola volta, riferendosi al solo carbone e chiedendone solo una riduzione graduale (phase-down) e non un abbandono (phase-out). Sarebbe quanto meno inatteso che, per la prima volta a una Cop, la richiesta di eliminazione di petrolio e gas venga messa nero su bianco da un ospite la cui economia è incentrata sulla loro estrazione e vendita.
Secondo il Production Gap Report 2023 dell’Unep (il programma ambientale dell’Onu), Adnoc ha in programma di aumentare la produzione di petrolio da qui al 2027, passando da 4 a 5 milioni di barili al giorno, grazie a un investimento di 150 miliardi di dollari. La compagnia prevede anche di aumentare la produzione di gas naturale liquefatto (Lng), passando dagli 8,2 miliardi di metri cubi annui odierni a 21,2 miliardi di metri cubi nel 2028, costruendo un’infrastruttura in grado di trasportare 13,1 miliardi di metri cubi annui in Asia e in Europa.
L’azienda energetica italiana Eni, con partecipazione pubblica, ha da poco stretto un accordo con il vicino Qatar per forniture di Lng fino al 2053, quando la neutralità climatica dovrebbe già essere stata raggiunta da tre anni.
L’elefante nella stanza dei negoziati è proprio questo. Non ci sono altre strade per uscire dalla trappola ecologica che nell’ultimo paio di secoli ci siamo costruiti attorno: occorre ridurre la produzione e il consumo di combustibili fossili.
Dopo i mesi di settembre e ottobre più caldi di sempre, con il 2023 che si avvia a diventare l’anno più caldo della storia della civiltà umana, il 17 novembre è stato il primo giorno in cui la temperatura superficiale media della Terra è arrivata a 2°C al di sopra della media pre-industriale. La media globale dell’anno in corso resterà al di sotto di 1,5°C, ma questo sforamento è un’avvisaglia di come la colonnina di mercurio si sta inesorabilmente alzando e il tempo utile per stabilizzarla è molto poco, sempre meno.
Le emissioni del settore energetico (quasi 37 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2022) sono i tre quarti di quelle che ogni anno le società umane immettono in atmosfera (oltre 50 Gt di CO2 equivalente).
Non si contano nemmeno più i rapporti che giungono dalla comunità scientifica (Ipcc – Intergovernmental Panel on Climate Change) e dagli organi internazionali (dall’Unep all’Agenzia Internazionale dell’Energia – Iea) che ricordano come il cambiamento climatico sia la più seria minaccia alla civiltà che l’umanità abbia mai dovuto affrontare e che per contrastarlo occorre ridurre, velocemente e drasticamente, le emissioni di gas serra.
Per restare al di sotto dei 2°C di riscaldamento globale rispetto all’era preindustriale, secondo quanto riporta un documento dell’Unfccc (la convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici), le emissioni antropiche vanno ridotte del 27% entro il 2030. Per restare invece al di sotto di 1,5°C vanno ridotte del 43% entro fine decennio.
Un altro modo di metterla è ragionare in termini di quanta CO2 possiamo ancora permetterci di rilasciare in atmosfera prima di superare le soglie critiche di temperatura. Si parla in questo caso di carbon budget, che è molto limitato.
Per avere il 50% di probabilità di restare al di sotto di 1,5°C nel decennio 2020 – 2030 non potremmo produrre più di 500 Gt di CO2. Ciò significa che mantenendo i livelli attuali di emissioni a fine decennio avremo probabilmente già bucato l’obiettivo di 1,5°C fissato dall’accordo di Parigi. Per avere una probabilità su due di restare al di sotto dei 2°C, il carbon budget del decennio sarebbe di 1.150 Gt di CO2. Dal 1850 al 2020 abbiamo prodotto, secondo l’Ipcc, circa 2.390 Gt di CO2 e già riscaldato il pianeta di 1,1°C: quasi mezzo grado di aumento ogni 1.000 Gt.
Questi dati sono noti da tempo, eppure non stanno facendo breccia nei consessi decisionali di aziende e governi. L’Emissions Gap Report dell’Unep, pubblicato ogni anno alla vigilia della Cop sul clima, fa un bilancio degli impegni e degli obiettivi climatici contenuti nelle NDCs (Nationally Determined Contributions), documenti che i singoli Stati nazionali devono periodicamente aggiornare in osservanza dell’accordo di Parigi. La sommatoria di piani e dichiarazioni, pur con notevoli eterogeneità tra Paesi, porta a un aumento della temperatura globale compreso tra i 2,5°C e i 2,9°C.
Even in the most optimistic scenario of current climate plans, the likelihood of limiting warming to 1.5°C is only 14%.
— UN Climate Change (@UNFCCC) November 20, 2023
A new @UNEP report warns: Nations must urgently reduce emissions or we might face global warming of 2.5-2.9°C.
More: https://t.co/RInqRuCbzV#COP28 pic.twitter.com/2d6tKVk8mk
Il documento dell’Unfccc riporta anche che i piani contenuti nelle NDCs attuali entro il 2030 consumerebbero l’87% del carbon budget necessario a restare sotto 1,5°C (lasciando una disponibilità di soli 70 Gt di CO2 a chi verrà dopo il 2030), mentre esaurirebbero il 38% del budget associato a un aumento di 2°C. Nel 2030 le emissioni calerebbero solo del 2% rispetto ai livelli attuali, restando comunque attorno alle 50 Gt annue.
È chiaro che la finestra, temporale e probabilistica, per agire è sempre più stretta ed è altrettanto chiaro che l’energia fossile che bruciamo va sostituita con fonti di energia a basse emissioni. Nell’incontro della settimana scorsa a San Francisco tra Joe Biden e Xi Jinping è emerso che i leader dei due Stati più emissivi al mondo, Stati Uniti e Cina, coopereranno sul fronte climatico e si impegneranno a triplicare entro il 2030 la potenza di rinnovabili installata, grazie all’incremento soprattutto di solare fotovoltaico ed eolico.
Poche settimane prima, la Net Zero Roadmap della Iea aveva delineato lo stesso obiettivo, sul quale ora sono allineati sia Irena (l’agenzia internazionale per le energie rinnovabili, che ha sede ad Abu Dhabi) sia la presidenza della Cop28, che lo ha messo al primo punto di una lettera inviata alle parti.
Secondo un rapporto di Ember, la somma dei piani dei singoli Stati nazionali è già in linea con un raddoppio della potenza rinnovabile da qui al 2030, passando da circa 3.400 GW a 7.300 GW. Tuttavia in alcuni Paesi, su tutti la Cina, tali obiettivi verranno raggiunti in anticipo rispetto a quanto programmato. Pertanto, con uno sforzo ulteriore, triplicare la potenza rinnovabile arrivando a 11.000 GW è un traguardo alla portata di politiche nazionali decise, sostiene il think tank Ember.
NEW | Government targets already align with a doubling of global renewables capacity.
— Ember (@EmberClimate) November 21, 2023
But these targets do not account for the recent renewables boom.
A TRIPLING is within reach by maintaining the 17% growth rate achieved since 2016#3xRenewables #COP28https://t.co/kYN0h9BYUt pic.twitter.com/9NC1lv0SgU
L’accordo sulle rinnovabili è quindi un realistico risultato che ci si attende dalla Cop28. Tuttavia, servirà a poco se sarà soltanto la foglia di fico che copre l’inazione sul fronte della riduzione del consumo di petrolio, gas e carbone e delle loro emissioni. La crescita delle rinnovabili non deve affiancarsi ai combustibili fossili: deve sostituirli.
Il Production Gap Report dice che non solo gli Emirati, ma complessivamente i piani dei governi nazionali puntano a un aumento della produzione globale di combustibili fossili che nel 2030 sarebbe doppia rispetto a quanto servirebbe a mantenere le emissioni e l’aumento di temperatura sotto i livelli critici, in linea con l’accordo di Parigi.
Production Gap Report 2023, Unep
“Coloro i quali dicono che raggiungere gli obiettivi climatici sia impossibile, credo stiano dal lato sbagliato della storia” ha detto Fatih Birol, direttore della Iea, in una recente intervista. Parafrasando le sue parole, anche chi rallenta il raggiungimento di quegli obiettivi sta dal lato sbagliato della storia. Tra poche settimane capiremo dove starà la Cop28.
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