Foto: Massimo Pistore. Università di Padova © tutti i diritti riservati
Due grandi porte ai lati dell’Aula Magna, già Scuola grande dei legisti come abbiamo accennato in una precedente puntata, permettono di accedere ad un’ampia sala di Palazzo Bo chiamata basilica. L'ambiente, un grande vano rettangolare diviso in tre navate separate da due file di colonne rivestite in stucco rosso, venne progettato dall’architetto Ettore Fagiuoli (1884-1961), e ripensato completamente negli interni e negli arredi dall’architetto Gio Ponti (1891-1979); gli affreschi alle pareti, opera di Pino Casarini (1897-1972) celebrano alcuni momenti della storia politica dell’Università, dall’8 febbraio 1848 fino alla guerra di Etiopia (1935-36) e di Spagna (1936-39). La basilica contiene inoltre molti busti di illustri docenti o personaggi legati allo Studio.
La basilica per posizione e forma si inscrive su quanto restava del Teatro di fisica sperimentale di Giovanni Poleni (1685-1761); invisibile ai nostri occhi dopo le demolizioni avvenute negli anni Trenta per necessità tecniche, il teatro nella sua articolazione spaziale rivive però come citazione e ricostruirne le vicende ci aiuterà ad apprezzarne l'importanza.
Inaugurato il 25 novembre 1740, il teatro poleniano venne allestito su quanto era stato realizzato dell’incompiuta biblioteca universitaria di Palazzo Bo. I lavori di costruzione della pubblica Libreria, iniziati il 5 maggio del 1718, secondo il progetto del valido e zelante architetto (quanto indolente bibliotecario, librettista e spia della Serenissima) Girolamo Frigimelica Roberti (1653-1732), erano andati progressivamente rallentando sino ad arrivare ad un punto di stallo nel 1737, quando vennero sveltamente approntati dei lavori di copertura.
Fu in questi anni che Poleni, che con l’amico e collega Giambattista Morgagni (1682-1771) aveva vigilato sull’andamento del cantiere, intervenne creando di fatto quello che a ragione è considerato il primo laboratorio italiano di fisica sperimentale ad uso dell’insegnamento universitario.
La cattedra di filosofia sperimentale, anch’essa una novità nel campo degli insegnamenti dello Studio della Repubblica, era stata creata il 27 novembre 1738 e attribuita, dal Senato di Venezia, nel febbraio del 1739
“ al professore Giovanni Poleni, che nel corso d’anni trenta nella cattedra d’Astronomia e meteore poi d’Ordinaria di Filosofia e presentemente della Mathematica ha dato abbondanti saggi delle dottrine et cognizioni che possiede, et con l’erudite stampe Citato in S. Talas, "Il gabinetto di filosofia sperimentale di Giovanni Poleni" in "Giovanni Poleni tra Venezia e Padova" , Venezia 2013.
Nell’atrio della Libreria Poleni ricavò un’aula a forma di teatro di dimensioni tali da contenere un centinaio di studenti; a questo luogo vi si poteva accedere dalle logge superiori del cortile. Lo spazio dove avvenivano le lezioni di fisica corrisponde, dopo le risistemazioni volute da Carlo Anti, al Senato Accademico. Oltre ad alcune piante restano due porte superstiti dell'atrio della libreria (ora rimontate nel passetto che collega la Basilica alla scuola di Giurisprudenza) e la cui iscrizione recita: "Porte disegnate nel MDCCXVII da Girolamo Frigimelica per l'Atrio della Pubblica Libreria ora Sala del Senato Accademico".
Il resto dello spazio a disposizione venne dedicato dall'insigne scienziato, all’alloggiamento delle macchine e degli strumenti, raccogliendone nel tempo quasi 400, come raccontato anche in un recente articolo.
Mentre Poleni era impegnato nel munire di macchine il teatro, gli venivano richieste consulenze per il consolidamento e il restauro di prestigiosissime architetture come la cupola di San Pietro, che riuscì a salvare dalla rovina anche per mezzo di macchine in grado di collaudare la resistenza dei materiali.
Il celebre fisico non poté disporre di tutto lo spazio ora occupato dalla basilica ma solo della porzione verso l'attuale Senato Accademico, come testimonia una pianta del Danieletti di inizio Ottocento e un'altra del 1816 di Giovanni Antonio Boni; quest'ultimo progettista proporrà nello anche un progetto di ampliamento per occupare finalmente tutto lo spazio disponibile verso oriente suddividendolo in tre navate; questo progetto è sostanzialmente confermato in un rilievo di vent'anni dopo di G.B. Dalla Vedova.
Tra il 1866 e il 1885 il prof. Francesco Rossetti trasformò e ampliò il teatro in un moderno laboratorio come confermato dall'ing. Zambler che descrive nel 1875 oltre ai locali precedentemente citati, come l'aula a teatro e la "lunghissima sala divisa in tre campate da due file di colonne comprendente il gabinetto di Fisica" anche altri luoghi "destinati or ora" come laboratori, e un locale "che serve oggidì a deposito per gli strumenti fuori d'uso".
Sarà questa la basilica a cui si ispirerà Carlo Anti nell'intento di conservare memoria del vecchio teatro, espressamente citata dal bando di concorso che imponeva, pena l'esclusione, di lasciarla immutata.
L'impianto del progetto vincitore di Ettore Fagiuoli venne confermato da Gio Ponti che aggiunse tuttavia altre due colonne. La nuova basilica tuttavia con il Senato Accademico posto in testa ad essa, pur conservandone la forma, la caricava di nuovi significati.
Altre tracce dell’attività dell’insigne fisico a Palazzo Bo si possono ritrovare in alcuni ambienti vicini, impiegati come siti di rappresentanza dell’Ateneo.
La sala del caminetto e soprattutto quella della nave, conservano modelli di vascelli utilizzati dal Poleni (e dal successore Simone Stratico 1733-1824) per le lezioni di costruzioni navali, cattedra che Giovanni assunse dal 1755 al 1761 nell’estremo tentativo, promosso dalla Serenissima, di ritornare alla grandezza dei fasti navali del passato; la Repubblica cercava di colmare così l’arretratezza in cui ormai versava la cantieristica veneziana. I vascelli delle altre potenze avevano ormai superato di molto per manovrabilità e potenza di fuoco le vecchie galere veneziane.
La basilica oggi non custodisce più le meravigliose macchine e gli strumenti del teatro poleniano (che potete in parte però ritrovare al museo di storia della Fisica dell’università di Padova) ma un altra straordinaria macchina qui conservata catturerà di certo la vostra attenzione: l’orologio astronomico di Giovanni Dondi (1318/30-1388) realizzato nel 1978 dal milanese Luigi Pippa.
Foto: Massimo Pistore. Università di Padova © tutti i diritti riservati
Giovanni Dondi insegnò allo Studio di Padova astronomia, logica e medicina per poi passare nel 1361 su invito di Galeazzo Visconti allo Studio di Pavia, appena fondato dall’imperatore Carlo IV. Tornato quindi a Padova nel 1370 e ancora a Pavia dal 1379 su invito di Gian Galeazzo Visconti, morì ad Abbiategrasso; in seguito le sue spoglie vennero traslate al battistero del duomo di Padova accanto all'arca del padre Jacopo (1290-1359) che inventò, secondo le argomentazioni di Andrea Gloria (1821-1911), un orologio mirabile posto sulla torre della Reggia Carrarese verso piazza dei Signori.
Giovanni fu medico personale e amico di Francesco Petrarca (1304-1374), che nel suo testamento non mancò di nominarlo assieme alla sua meravigliosa invenzione, lasciandogli in eredità anche un anello; sulla tomba del poeta ad Arquà, Giovanni dettò un sonetto che viene considerato da alcuni l'inizio del culto al poeta toscano.
Stimatissimo dai contemporanei, Giovanni è ad oggi famoso soprattutto per il suo orologio planetario un meccanismo in grado di riprodurre l’universo secondo le teorie cosmologiche del tempo. Sette quadranti restituiscono il moto apparente dei movimenti dei pianeti allora conosciuti, delle stelle fisse e della luna; il congegno è in grado inoltre di calcolare le ecclissi le feste religiose, comprese quelle mobili.
Secondo alcuni l’orologio, la cui ideazione avvenne probabilmente a Padova, venne posto in una torre del castello di Pavia: ammiratissimo dai contemporanei il prezioso congegno incuriosì da subito moltissimi sapienti ed artisti, tra i quali Donato Bramante (1444-1514) ma smise di funzionare già alla fine del Quattrocento.
Si narra che nel 1529 l’imperatore Carlo V (1500-1558) vedendo l’orologio in una sala di un Castello nei pressi di Milano dopo averlo ammirato lo prese portandolo con sé fino al monastero di Yuste dove si ritirò, dopo aver abdicato, nel 1556; l’orologio sarebbe dunque andato distrutto nel 1809 nella guerra franco-spagnola. Questa è solo una leggenda, le verità è ancora più bizzarra: Carlo in realtà ordinò al suo orologiaio personale, Gianello Torriano da Cremona, di eseguire una copia del congegno che nel frattempo venne dimenticato nel castello a Milano e quindi dimenticato, disperso e probabilmente distrutto.
Fortunatamente Giovanni Dondi descrisse la sua invenzione in un trattato che si è conservato in più manoscritti; in particolare quello conservato alla biblioteca Capitolare di Padova, scritto da Giovanni stesso ha permesso la ricostruzione di alcune repliche, tra cui quella conservata nella basilica del Bo. Donata all’Università di Padova nel 2004 questa meravigliosa macchina restituisce ai nostri occhi la scienza di un cittadino padovano, docente nello Studio della Padova carrarese.
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