CULTURA

La scienza nascosta nei luoghi di Padova: l'Orto agrario

“Signor ministro, mi rivolgo personalmente a lei e la prego vivamente d’intervenire con la sua autorità per togliere il problema delle facoltà di Agraria dalle pastoie burocratiche. È da più di un anno che vado lottando senza successo”. Inizia senza giri di parole la lettera al ministro dell’istruzione Gonnella da parte del rettore Egidio Meneghetti, nel 1946. E la sua caparbietà sarebbe riuscita infine a sciogliere i legacci statali che imbrigliavano ciò che in Ateneo era stato già pianificato, ottenendo di avviare il primo anno dei corsi di Agraria.

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La cattedra era stata abolita nel 1870 e, fino alla sua reintroduzione nel dopoguerra, l'insegnamento dell'agricoltura era stato legato alla scuola di Ingegneria. La nuova facoltà di Agraria, il cui prestigio era tutto da ricostruire, trovò una prima sede in alcuni vecchi edifici nella zona del Portello, nell’area in cui sorgeva, in stato di semi-abbandono, un Orto agrario, istituzione secolare che aveva affrontato altalenanti fortune.

In realtà a Padova la coltivazione e lo studio delle piante erano state per secoli oggetto di esclusiva competenza dell’Orto botanico, fin dalla sua fondazione nel 1545. Solo nella seconda metà del Settecento era stato realizzato un vero e proprio Orto agrario, completamente scollegato da quello botanico, per supportare l’insegnamento dell’agricoltura. A unire invece idealmente i due orti fin dagli albori era la presenza di uno studioso di botanica, Pietro Arduino: prima “giardiniere” e poi “custode” dell’Orto botanico, nel 1761 (ma formalmente nel 1765) divenne il primo docente a ricoprire la nuova cattedra ad rem agrariam e dal 1766 anche il primo direttore dell’Orto agrario, che aveva trovato sede entro le mura cinquecentesche di Padova, a Borgo Santa Croce.

L’Orto agrario era dunque nato nell’ultimo periodo della Serenissima per concessione dei Riformatori dello Studio e in risposta a sollecitazioni contingenti, come la crisi alimentare e le frequenti epizoozie che colpivano il bestiame, e si legava a un tentativo di rinnovamento dell’università padovana, minacciata dal moltiplicarsi degli atenei in Europa. Per essere competitiva, l’università doveva dotarsi di nuove strutture e di spazi sperimentali, offrire corsi applicativi e moderni; e di farlo in italiano, non più in latino.

I finanziamenti ottenuti da Arduino furono sufficienti per fornire l’Orto di pochi attrezzi rurali e di un paio di animali. Il docente dava lì lezioni ogni anno da aprile ad agosto, anche tentando la sperimentazione di nuove colture e di tecniche innovative, come la bonifica delle terre umide per aumentare la produzione agricola e l’uso del metodo “tarelliano” di rotazione quinquennale delle colture. Per questo tipo di attività il terreno risultò presto insufficiente, tanto che lo spazio riservato alle coltivazioni dovette essere a più riprese ampliato, arrivando ad estendersi per più di cinque ettari.

A Pietro Arduino succedette alla direzione dell’Orto agrario il figlio Luigi, che proseguì l’opera del padre nel campo della sperimentazione agricola, in questo favorito dall’apertura, con la caduta della Serenissima, alla circolazione delle nuove idee in campo agricolo. L’annessione al Regno d’Italia napoleonico favorì la ricerca, in particolare quella sulle piante di origine americana come la patata, il mais, il pomodoro e il tabacco; ma anche sulla tintoria e sull’estrazione dello zucchero dalla barbabietola.

Questo tipo di conduzione dell’Orto, sostanzialmente votata alla ricerca, venne però tacciata ben presto come “antieconomica” dal ministero della Pubblica istruzione, che invitò ad una gestione più schiettamente didattica. Con il ritorno stabile del Veneto agli austriaci e il passaggio della direzione dell’orto a Luigi Configliachi, si abbandonò quasi completamente la sperimentazione in favore dell’insegnamento delle pratiche e delle colture già diffuse. In pochi anni l’Orto si ridusse notevolmente e l’eliminazione formale nel 1870 della cattedra di Agraria, che continuò però ad esistere in seno alla facoltà di Ingegneria, sancì una definitiva perdita d’interesse da parte del mondo accademico.

Nei primi anni del 1900, l’Orto agrario risultava mutilato e in stato di semi-abbandono. L’Università cedette il terreno di Borgo Santa Croce al Comune di Padova, che negli anni Venti vi realizzò una porzione del nuovo quartiere Città giardino. All’Ateneo venne dato in cambio un fondo in zona Portello, dove venne costruita la nuova sede dell’Orto agrario, diretta da Leopoldo di Muro, docente di economia ed estimo.

Come s’è detto, solo nel 1946 ricomparve fra le facoltà padovane quella di Agraria, mentre alla direzione dell’Orto c'era un ingegnere, Guido Ferro, che l’anno successivo divenne anche rettore dell’università di Padova. Grazie a lui l’Agraria riacquistò in Ateneo spazi e dignità: la nuova sede al Portello, con edifici, locali per la ricerca e laboratori, fu inaugurata ufficialmente il 18 novembre 1951.

L’impiego di macchine, l’uso di prodotti chimici e le mutate esigenze nella sperimentazione definirono in pochi decenni un nuovo scenario, nel quale l’Orto agrario del Portello risultò del tutto inadeguato: troppo piccolo, troppo soffocato dalla città che era cresciuta e aveva cambiato volto. Spazi più consoni vennero individuati fuori Padova: nacque così l’azienda sperimentale di Legnaro e lì accanto si trasferirono, dal 1996, le facoltà di Agraria, di Scienze forestali e della neonata Medicina veterinaria, dando vita al campus di Agripolis.

Dell’antico Orto agrario cittadino oggi non v’è più alcuna traccia, se non in due lapidi commemorative al Portello.

Agripolis: video-guida al Campus

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