CULTURA
La scienza nascosta nei luoghi di Padova: la collezione naturalistica di Palazzo Cavalli
Palazzo Cavalli è sede del museo di Geologia e Paleontologia e del museo di Mineralogia dell'università di Padova. La sala delle palme, i pesci di Bolca, la tigre dai denti a sciabola e l'elefante nano sono solo alcuni dei gioielli che custodisce. Ogni oggetto è un universo di storie, ma qual è la storia della collezione naturalistica di Palazzo Cavalli che nei prossimi anni verrà ampliata per divenire il nucleo del nuovo Museo della Natura e dell'Uomo? Tutto parte da un medico lucchese, Antonio Vallisneri, e da una donazione, fatta dal figlio, all'università di Padova nel 1733.
Antonio Vallisneri: un breve ritratto
Antonio Vallisneri senior (1661 – 1730) nasce a Trassilico in provincia di Lucca. Nel 1679 riceve in eredità dallo zio Giuseppe una cospicua fortuna, che gli impone però una serie di strette condizioni: avrebbe dovuto risiedere almeno tre mesi all'anno a Scandiano (in provincia di Reggio Emilia), avrebbe dovuto avere figli maschi per mantenere il diritto di successione e si sarebbe dovuto laureare in legge o in medicina entro i trent'anni di età. La moglie ebbe diciotto gravidanze e molti figli. Sopravvissero però solo tre femmine e un maschio, Antonio junior.
Ottemperando alle richieste dello zio, Antonio sr si formò prima nel Collegio gesuitico di Modena, dove sviluppò la familiarità con i classici latini e la padronanza della lingua italiana, e poi studiò medicina a Bologna con Marcello Malpighi (1628 – 1694). Si laureò a Reggio Emilia nel 1685. Dopo la pratica a Venezia, Padova e Parma, esercitò la professione medica a Scandiano, ma contemporaneamente si interessò di entomologia. Furono i Dialoghi sopra la curiosa origine di molti insetti, pubblicati in due volumi nel 1696 e nel 1700, a valergli la prima notorietà scientifica e la chiamata a Padova per ricoprire la cattedra di medicina pratica.
Antonio Vallisneri sr (come ricostruito da Dario Generali) studiò a lungo il fenomeno del parassitismo (vermi intestinali bovini e umani e loro riproduzione) e fu sostenitore dell'importanza, per la medicina, degli studi naturalistici quando l'efficacia del metodo comparativo era ancora negato dalla tradizione medica aristotelica e galenica. Vallisneri era un sostenitore dell'approccio empirico e descrittivo tipico della medicina galileiana, ma era anche difensore di uno scetticismo farmacologico di stampo ippocratico: del funzionamento del corpo umano si sapeva poco e ancora di meno si sapeva dei giusti rimedi; la maggior parte dei farmaci era dunque vista come una soluzione più nociva che vantaggiosa e, in tale condizioni d'incertezza, la scelta terapeutica più opportuna si riteneva fosse quella di limitarsi a favorire, senza dannose interferenze, l'autonoma azione risanatrice della natura. Nel 1710 Vallisneri ottenne la cattedra di medicina teorica di Padova e la occupò fino alla sua morte, avvenuta vent'anni dopo in seguito a un'improvvisa malattia polmonare.
Vallisneri fu studioso di successo tanto quanto fu divulgatore e influente uomo di cultura. Con Scipione Maffei (1675 – 1755) e Apostolo Zeno (1668 – 1750), fondò il Giornale de’ letterati d’Italia, di cui condusse la linea editoriale per le discipline mediche e naturalistiche. Questa iniziativa rivestì un ruolo di primo piano nel dibattito culturale e scientifico dell'Italia del primo Settecento, valorizzando in ambito europeo la cultura italiana, allora largamente sottovalutata sul piano internazionale, e promuovendo il metodo sperimentale nelle scienze della natura e quello erudito nelle discipline storiche.
Vallisneri aveva riunito nel corso della sua vita un vasto repertorio di oggetti naturali e di antichità, tramite la raccolta diretta di esemplari, attraverso scambi con eruditi e collezionisti italiani (Scipione Maffei e Luigi Ferdinando Marsili) e stranieri (Johann Jacob Scheuchzer e Louis Bourguet), nonché attraverso acquisti, come nel caso della collezione d'arte e antichità di Marco Mantova Benavides iniziata a Padova nel XVI secolo.
La collezione e la donazione
Così come l'Ashmolean Museum di Oxford, primo museo universitario al mondo, nacque nel 1683 dalla donazione dell'antiquario Elias Ashmole (1617 – 1692), che cedette la propria collezione all'università britannica, il museo dell'ateneo patavino nacque nel 1733 grazie alla donazione della collezione privata di Antonio Vallisneri sr, ad opera del figlio Antonio jr. Quella di Vallisneri sr era una delle collezioni più importanti per la museologia settecentesca italiana, accanto a quelle del naturalista Luigi Ferdinando Marsili (1658 – 1730) a Bologna e del farmacista e botanico Giovanni Girolamo Zannichelli (1661 – 1729) a Venezia.
Da questo punto in avanti, la storia della collezione museale vallisneriana è anche la storia di alcune cattedre dell'università di Padova (si veda Canadelli E., 2017, “Storia di una collezione settecentesca. Il Museo vallisneriano dell'Università di Padova attraverso i cataloghi storici”, Museologia scientifica memorie, 17, pp. 34-38).
Nel 1734 fu istituito il nuovo insegnamento di storia naturale, affidato proprio a Antonio Vallisneri jr. Tra il 1735 e il 1736 le raccolte furono allestite nei locali dell’università a Palazzo Bo (probabilmente nella odierna aula di Scienze) dove vennero utilizzate per la didattica degli studenti. Vallisneri jr fece acquisire intere nuove collezioni: nel 1755 i fossili provenienti dai monti di Verona del naturalista dilettante e speziale (colui che da spezie e erbe medicinali preparava medicine) Giovanni Battista della Valle; i minerali dell'antiquario Sigismondo Strayt nel 1758; la collezione del veneziano Zannichelli nel 1759; nel 1760 il pontefice Clemente XIII donò l'olotipo (esemplare su cui si basa la descrizione originale di una specie) della tartaruga liuto.
Vallisneri jr morì nel 1777 e la cattedra di storia naturale venne sospesa fino al 1806, quando venne riattivata con l'arrivo dello zoologo Stefano Andrea Renier (1759 – 1830), il quale per la prima volta divise la collezione di antichità, che andò a costituire il nucleo del Gabinetto di numismatica e antichità, dalla collezione naturalistica, che rimase a Palazzo Bo.
Nel 1869 la cattedra di storia naturale venne smembrata in due insegnamenti: zoologia e anatomia comparata da una parte, geologia, paleontologia e mineralogia dall'altra. La prima venne affidata nel 1869 a Giovanni Canestrini (1835 – 1900), che per primo tradusse le opere di Charles Darwin in italiano e ne diffuse il pensiero evoluzionistico; le collezioni zoologiche riordinate e catalogate furono trasferite nell'ex ospedale di San Mattia nel 1874. L'altra cattedra nel 1882 venne separata ulteriormente nell'insegnamento di Mineralogia, assegnato a Ruggero Panebianco (1848 – 1930) e in un insegnamento di Geologia, affidato a Giovanni Omboni (1829 – 1910). Le collezioni geologiche rimasero ancora a Palazzo Bo.
Nel corso del XIX secolo eminenti figure contribuirono ad arricchire la collezione museale. Tommaso Antonio Catullo (1782 – 1869), che ottenne la cattedra di storia naturale nel 1829 e fu eletto rettore nel 1843; Roberto De Visiani (1800 – 1878), che fu prefetto dell'Orto Botanico a partire dal 1836; e ancora il barone Achille De Zigno (1813 – 1892), il geologo Giorgio Dal Piaz (1872 – 1962), cattedra di geologia nel 1908, e il figlio Giovanni Battista Dal Piaz (1904 – 1995).
Nel 1932 le collezioni di geologia e paleontologia furono trasferite a Palazzo Cavalli e con esse le cattedre associate, mentre nel palazzo attiguo, Casa Fontana, trovò sede l'Istituto e il museo di Mineralogia. Con la riforma universitaria del 1980, l'Istituto di Geologia e Paleontologia fu sostituito dal dipartimento di Geologia, Paleontologia e Geofisica. Lo stesso dicasi per l'Istituto di Mineralogia e Petrografia. Nel 2007 il dipartimento di Geologia, Paleontologia e Geofisica venne fuso con quello di Mineralogia e Petrologia, creando il dipartimento di Geoscienze.
Per 80 anni Palazzo Cavalli è stata sede delle geoscienze patavine. Nel 2010 il dipartimento di Geoscienze si è trasferito da Palazzo Cavalli al nuovo edificio di via Gradenigo, liberando ampi spazi che presto verranno occupati dagli allestimenti del nuovo Museo della Natura e dell'Uomo dell'università.
Il museo, oggi
Tra i gioielli del museo di geologia e paleontologia oggi c'è la magnifica Sala delle Palme, che immerge i visitatori in una suggestiva foresta fossile composta da decine di palme conservate ed esposte in teche di vetro illuminate. Le palme provengono da giacimenti fossiliferi nei dintorni di Bolca, in provincia di Verona, e dagli affioramenti della valle del Torrente Chiavon, in provincia di Vicenza. Tra i 50 e i 30 milioni di anni fa queste aree del Veneto erano occupate da un mare tropicale e le specie viventi che le popolavano erano adattate a quel clima. Il reperto più suggestivo conservato nella Sala è un esemplare di Latanites maximiliani alto più di tre metri scoperto nel 1863. Il nome tassonomico è dovuto al fatto che Roberto De Visiani, allora prefetto dell'Orto Botanico, dedicò la specie a Massimiliano I d'Asburgo (1832 – 1867), imperatore del Sacro Romano Impero e appassionato botanico.
Oltre alle palme, la collezione vanta una delle flore europee più famose del Giurassico, la cosiddetta “Flora di Rotzo”, documentata sia nel vicentino che in molte località del veronese, che fu studiata e descritta per la prima volta dal Barone Achille De Zigno tra il 1856 e il 1885 nel suo celebre lavoro Flora Fossilis Formationis Oolithicae.
La sezione di paleobotanica conta in tutto circa 5000 esemplari, provenienti prevalentemente da località del Triveneto. Alcuni di essi hanno più di 400 milioni di anni.
Un'altra perla del museo è il Tridentinosaurus antiquus delle Alpi meridionali, un rettile risalente a più di 250 milioni di anni fa (Permiano), più antico dei dinosauri. Simile a una lucertola, fu trovato nel 1931 nei pressi di Stramaiolo, in Trentino, e a ciò deve il suo nome.
I paesaggi tropicali che caratterizzavano il Veneto sud occidentale tra i 50 e i 30 milioni di anni fa sono raccontati anche dai pesci di Bolca. Alcuni di questi pesci conservano persino il colore della livrea, mentre altri mostrano nell'apparato digerente la loro ultima cena.
Altri pezzi forti della collezione sono gli ittiosauri giurassici, rettili marini provenienti dalla Germania. Ci sono 315 reperti di delfini fossili rinvenuti lungo il torrente Gresal nel bellunese e risalenti a 15 – 20 milioni di anni fa, quando gran parte del Veneto era ancora sommersa. Ci sono due orsi delle caverne del Carso triestino, che si cibavano prevalentemente di frutta e bacche. Due elefanti nani della Sicilia pleistocenica e i resti di una femmina di mammut (110 – 120 mila anni fa) rinvenuti a Asolo assieme a strumenti litici che probabilmente appartenevano all'uomo di Neanderthal. La preferita dai bambini resta però la tigre dai denti a sciabola (40 – 10 mila anni fa), uno scheletro composito rinvenuto in pozze di bitume californiane agli inizi del secolo scorso e arrivato a Padova grazie a uno scambio con l'università di Berkeley.
Il museo vanta inoltre una ricca collezione di invertebrati fossili, molti dei quali raccolti nel Triveneto, altri provenienti da siti fossiliferi italiani, europei ed extraeuropei. Alcuni di questi reperti vantano condizioni di conservazione eccezionali: sono visibili le ali di una libellula vissuta 150 milioni di anni fa e la sacca di inchiostro di un calamaro.
Oltre alla collezione di rocce (sedimentarie, magmatiche e metamorfiche) provenienti dalle Alpi italiane e da altre località straniere, sono presenti collezioni storiche appartenute agli studiosi del XIX secolo Tomaso Antonio Catullo, Giovanni Omboni e Achille De Zigno.
Il museo, domani
Nel 2022 l'università di Padova compirà 800 anni e per questa occasione l'ateneo punta a fare di Palazzo Cavalli il nuovo polo museale naturalistico della città.
Alle collezioni geolgogiche, mineralogiche e paleontologiche verranno unite quelle di zoologia e di antropologia, mentre un'area sarà appositamente dedicata a esposizioni temporanee, per favorire lo scambio tra musei e le interazioni tra università e città, italiane e estere. Nascerà con un concept innovativo il Museo della Natura e dell'Uomo, ricco di postazioni interattive e multimediali, di linguaggi espositivi e soluzioni tecnologiche diverse. Il Museo unirà la conservazione alla ricerca ed entrambe queste missioni saranno condivise con tutte le fasce di pubblico.
I circa 4.000 metri quadri saranno messi a disposizione di esposizioni permanenti e mostre temporanee, per raccontare una storia scritta nelle rocce, nei fossili, negli adattamenti degli animali e delle piante, negli artefatti millenari dell'umanità.
E verrà raccontato anche il rapporto tra gli esseri umani e un pianeta, la Terra, che in passato ha già vissuto catastrofi globali sconvolgenti, come le 5 grandi estinzioni di massa, e che oggi sta vivendo nuovi stravolgimenti di cui noi umani siamo stati la causa, dalla perdita di biodiversità al riscaldamento globale, dalla frammentazione degli habitat allo scioglimento dei ghiacci, e di cui presto potremo anche essere le vittime.
FOCUS: Vittoria Accoramboni
Nel 1585 Palazzo Cavalli salì agli onori di cronaca per una sinistra vicenda: nella sua stanza, mentre pregava si dice, venne pugnalata a morte da un manipolo di sicari la bella Vittoria Accoramboni. Nata a Gubbio nel 1557, a 16 anni sposò a Roma Francesco Peretti, nipote del cardinale Felice di Montalto, futuro papa Sisto V. Contesa da molti pretendenti, Vittoria divenne amante del potente duca di Bracciano della famiglia Orsini, Paolo Giordano I. Questi fece uccidere prima la moglie Isabella de' Medici e poi, nella notte tra il 16 e il 17 aprile del 1581 ai piedi del Quirinale, il marito di Vittoria, Francesco Peretti, per mano di un fratello di Vittoria, Marcello Accoramboni. Subito dopo il duca Orsini sposò clandestinamente Vittoria, ma il matrimonio fu dichiarato nullo dalla Curia. Fu lo stesso papa Gregorio XIII quello stesso anno a ordinare l'arresto di Vittoria, che finì nelle carceri di Castel Sant'Angelo. Restò rinchiusa un anno per poi essere liberata ed esiliata a Gubbio. Nel 1583 tentò nuovamente di sposare Paolo Giordano I Orsini, ma da Roma fu proclamato l'annullamento anche del secondo matrimonio. Alla morte di Gregorio XIII, avvenuta nel 1585, gli amanti si risposarono, a Roma. Ma con un colpo di scena il collegio cardinalizio elesse papa lo zio del defunto marito di Vittoria, Felice Peretti, con il nome di Sisto V.
I due amanti fuggirono da Roma, prima a Bracciano, poi nelle Marche; e ancora a Venezia, a Padova e a Salò. Qui Paolo Giordano I Orsini si ammalò improvvisamente, si dice avvelenato da Francesco de' Medici. Sul letto di morte fece testamento e lasciò in eredità a Vittoria un ampio patrimonio. Vittoria tornò a Padova nella residenza che il marito aveva preso in affitto, Palazzo Cavalli. Fu qui che il 22 dicembre 1585 i sicari assoldati dal cugino del secondo defunto marito, Lodovico Orsini, protettore del nipote Virginio, nato dalle prime nozze di Paolo Giordano, raggiunsero Vittoria e suo fratello Flaminio. La Repubblica di Venezia riuscì a catturare dopo un lungo assedio al suo palazzo Lodovico Orsini, che venne poi giustiziato.
Corteggiatissima per la sua bellezza, Vittoria ebbe anche fama di poetessa, anche se probabilmente fu solo destinataria delle poesie dei suoi pretendenti: Domenico Gnoli, che si occupò della sua biografia (Gnoli D., Vita di Vittoria Accoramboni, Firenze 1890), non le attribuì capacità poetiche. Ispirò invece diverse opere. Il drammaturgo britannico John Webster (1580 – 1625) nel 1612 portò nei teatri di Londra The white devil (Il diavolo bianco), opera tragica che prende spunto dalla vicenda di Vittoria; mentre nel 1837 Stendhal (1783 – 1842) scrisse il racconto Vittoria Accoramboni, duchesse de Bracciano.
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