SOCIETÀ

Le artigiane al lavoro nel palazzo della contessa

Originaria di una famiglia nobile perugina, Maria Meniconi-Bracceschi legò il suo nome a quello di Padova, grazie al suo costante ruolo attivo nella vita sociale della città. Nata nel 1867, il cognome della sua casata era sorto invece alla fine del Trecento, quando i “bracceschi” indicavano i soldati di ventura al seguito del condottiero Braccio da Montone. Nella città del Santo sposò Francesco Papafava, rampollo di una delle famiglie più illustri, e qui fece parlare di sé per le sue numerose battaglie sociali, a partire da quelle per l’emancipazione femminile.

All’alba del Novecento, la giovane si fece infatti portavoce di ideali per i quali si era cominciato a lottare: proprio in quello scorcio di secolo in Italia si rafforzava, ad esempio, il termine “femminismo”. Nell’età giolittiana il movimento delle donne visse una grande fase di protagonismo con la nascita di diverse associazioni nazionali. Tra le varie anche le Industrie femminili italiane, fondate il 22 maggio 1903 a Roma allo scopo – si legge nello statuto – di “promuovere e migliorare il lavoro femminile e la condizione economica delle lavoratrici, con un sano indirizzo artistico e industriale”. Era una società cooperativa composta da 24 diversi comitati locali – tra cui quello padovano –, ciascuno con una propria peculiarità: a Mestre, ad esempio, realizzavano cappelli con filamenti estratti da trucioli di salice; nelle Marche merletti; a Firenze feltri per cappelli e altro. In questo modo le Industrie femminili italiane facevano fiorire l’artigianato locale.

L’idea di formare una realtà di questo tipo era nata in seno a un gruppo di donne appartenenti alla nobiltà o alla borghesia italiane, tra cui spiccavano Carolina Amari, che ne fu la prima presidentessa, la contessa Maria Pasolini e, a Padova, proprio Maria Bracceschi Papafava. La stessa regina Margherita acquisì delle azioni della società cooperativa.

Bracceschi seguì fin dall’inizio le attività del Consiglio nazionale delle Donne – uno dei tre grandi organismi femminili italiani, con l’Unione femminile nazionale e l’Associazione nazionale per la Donna – prendendo parte al primo Congresso nazionale delle Donne italiane, organizzato nel 1908. Il Consiglio, fondato nel 1903 sotto l’impulso dell’International Council of Women, che cercava un referente proprio in Italia, era una federazione di associazioni femminili e miste “impegnate per il miglioramento della condizione sociale delle donne, aperto a [esponenti] di ogni idea politica e di ogni religione”. Qualche anno dopo, nel 1920, fu proprio Maria Bracceschi a fondare la sezione padovana del Consiglio, espressione dell’emancipazionismo moderato, e a prenderne in mano le redini.

Durante la Grande guerra, la contessa ebbe un ruolo determinante in campo assistenziale. Il consiglio femminile del Comitato locale della Croce rossa, infatti, organizzò una serie di laboratori per il confezionamento di biancheria per i propri ospedali e per i soldati, allestiti nei palazzi delle contesse Cia Giusti del Giardino e Maria Bracceschi Papafava.

In questo secondo edificio si insediò la cosiddetta “Missione francese”. Dopo Caporetto, infatti, il re e il governo avevano chiesto agli alleati l’invio di truppe sul fronte del Piave, che arrivarono dopo l’avvicendamento del generale Cadorna con Armando Diaz. Sia il comando inglese sia quello francese si stabilirono in città: il primo a Palazzo Giustinian, il secondo proprio a Palazzo Papafava.

Padova rimase a lungo “la capitale della guerra” e fino al 1917 fu sede anche di ospedali e di uffici necessari all’esercito. Nel salone d’onore del palazzo, dunque, Maria Meniconi-Bracceschi allestì il cosiddetto “laboratorio Papafava”. Decine di volontarie si ritrovavano lì, in via Marsala, per confezionare le divise dei militari al fronte.

In quegli anni Maria era anche direttrice del Fascio femminile di Resistenza che, nato dopo la rotta di Caporetto per iniziativa di alcune aderenti al Consiglio nazionale delle Donne, e operativo anche dopo la fine della guerra, aveva – come si legge nel bollettino del gennaio del 1918 – due principali obiettivi: “uno immediato ispirato alle esigenze eccezionali del momento del bisogno, cioè di resistenza fino alla vittoria” e il secondo permanente, cioè “quello di affrontare i problemi sociali, la soluzione dei quali la guerra [aveva] reso più urgenti”.

A Padova nasceva poi la sezione locale del Fascio, composto dalle contesse Amalia Fanzago, Maria Favero Dolfin, Maria Zacco, Anna D’Arcais, Luisa, Cia e Maria Cittadella Vigodarzere, oltre che, chiaramente, da Maria Bracceschi.

Insieme a quest’ultima, anche il suo secondogenito visse l’esperienza della Missione francese. Novello, nato il 1° giugno 1899, già nel maggio 1916 si arruolava come volontario, senza essere però mobilitato per ragioni di età. Al fronte ci arrivò nell’ottobre del 1917, nei giorni della rotta di Caporetto. Partecipò poi con il maggiore Carlo Reina all’impresa di Fiume e diventò un fervente antifascista. Dopo l’omicidio di Matteotti cercò anche di formare un soggetto politico che fosse in grado di rappresentare quanti si opponevano al regime e fu uno dei firmatari del manifesto antifascista dell’Università di Padova.

Maria Meniconi-Bracceschi, quindi, fu un’illustre esponente di una borghesia sensibile alle tematiche sociali. Pronta a mettersi costantemente in gioco, ebbe un ruolo non di secondo piano anche nelle vicende belliche, in quanto il “suo” laboratorio risultò essere di grande importanza per i soldati al fronte. Convinta sostenitrice del lavoro femminile, fu un’importante figura a livello locale e nazionale, facendosi portavoce di un tentativo di miglioramento economico e sociale delle donne dell’epoca.

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