UNIVERSITÀ E SCUOLA

Talenti al femminile tra Cinque e Seicento

Elena Lucrezia Cornaro Piscopia si laureò a Padova nel 1678. Era la prima donna a farlo nella storia dell’Europa e del mondo. Grande fu perciò la meraviglia suscitata non solo in città e a Venezia, dove era nata e dove il padre ricopriva alte cariche istituzionali, ma anche in tutta Italia e nell’intero continente. Tutti e in tutta Europa parlavano, in quella seconda parte del XVII secolo, di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia e della sua dottrina.

Ma di lei si è poi detto che fu sì brillantissima,ma solo perché apparve come una sorta di fulmine a ciel sereno. Perché nel firmamento culturale del Seicento non era dato a una donna acquisire un grado di conoscenza che poteva appartenere solo ai maschi. Tra i più critici fu, un secolo dopo, Girolamo Tiraboschi, gesuita e storico della letteratura italiana, che scrisse di Elena Lucrezia sostenendo che la ragazza risultò una stella brillante ai suoi coevi non per intrinseca luminosità, ma perché, appunto, sola nel cielo altrimenti buio delle donne acculturate.

Scrive tranchant il gesuita, a pagina 317 della sua Storia della letteratura italiana pubblicata a Modena nel 1780: “Le sue operenondimeno a me non sembra che adeguino la fama che ella godé vivendo, e forse la troppa prematura di darle alla luce ha fatto che questa illustre damigella non sembri così degna degli onori che le furono conceduti, quanto parve a coloro che ebbero la sorte di vivere con lei e di ammirarne levirtù ei talenti”.

Ebbene, Girolamo Tiraboschi ha commesso due errori, come cercheremo di dimostrare. Il primo è che Elena Lucrezia Cornaro Piscopia fu assolutamente degna dell’aura di donna coltissima che la circondò prima e, soprattutto, dopo il 1678. 

Il secondo è che la ragazza veneziana non fu assolutamente un fulmine a ciel sereno. Altre donne brillarono nel firmamento culturale del Seicento. E, dunque, andrebbe corretto anche Benedetto Croce quando scrive, nel 1929, su La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia, da egli stesso diretta, in un saggio intitolato Appunti di letteratura secentesca inedita o rara. X. Le donne letterate nel Seicento, che: “La società del seicento è senza alito di muliebrità”. 

Le poche donne che scrivevano nel XVII secolo, dice Croce, lo facevano nei conventi e per proporre rime e canzonette a carattere spirituale. 

Non fu così. E cercheremo di dimostrarlo citando alcune figure di italiane che rappresentano la parte emergente di un iceberg che, sotto la superficie del mare, era ben più ampio ed esteso: quello della domanda crescente da parte delle donne di partecipare in prima persona alla vita intellettuale in un secolo che, si dice, ha inaugurato la cultura di massa.

Elena Lucrezia nacque a Venezia nel 1646. Pochi anni prima che un’altra veneziana di valore – peraltro citata da Benedetto Croce – venisse a mancare: si trattava di Elena Cassandra Tarabotti, suor Arcangela. Sì era una monaca. E, come spesso accadeva in quei tempi, entrata in convento per costrizione e non per convinzione. La grandezza di Elena Cassandra Tarabotti sta proprio in questo: nell’aver gridato al mondo l’ingiustizia della sua infelice prigionia con una serie di testi che misero a nudo il potere maschile e le sue vesti ipocrite assunte persino nella laica e liberale Venezia.

Elena Cassandra Tarabotti era nata nel 1604 a Venezia, nel sestiere Castello, da Maria Cadena e Stefano Tarabotti. Era la maggiore tra le sei figlie femmine in una famiglia che contava anche cinque figli maschi. Ma, come lei stessa scriverà, era “zoppa” e dunque donna non “da marito”. Il suo destino era segnato: nel 1617, all’età di tredici anni, vene chiusa nel vicino convento benedettino di Sant’Anna. Contro la sua volontà. Nel 1629 venne consacrata. 

La ragazza offesa e umiliata, ma non domata, spende la sua vita in quel convento che considera una prigione protestando non solo per la sua condizione, ma anche per quella di tutte le donne nella società veneziana, italiana, europea. Per fare questo studia da autodidatta e scrive sei libri, di cui quattro vengono pubblicati nel corso della sua vita, grazie anche all’aiuto fattivo di Gian Francesco Loredano, il fondatore dell’Accademia degli Incogniti. 

I suoi primi libri furono anche i più importanti. Espliciti, già dai titoli. Nella Tirannia paterna (pubblicato postumo, nel 1654, con lo pseudonimo di Galerana Baratotti), nella Semplicità ingannata e nell’Inferno monacale il J’accuse è soprattutto nei confronti del padre, che l’ha confinata in convento sacrificando la sua libertà e i suoi sentimenti. Il tono è duro e pressoché inusitato: il padre non ha diritto di disporre del destino delle sue figlie. Una rivendicazione della libertà della donna di cui il padre padrone fa strame.

Ma anche una rivendicazione della dignità della donna e una condanna delle disuguaglianze di genere. Così scrive Elena Cassandra Tarabotti:

         Se quando nasce una figliuola al padre,

            la ponesse col figlio aun’opra uguale,

            non saria nelle imprcse alte eleggiadre

            alfrate inferior né disuguale;

            o la ponesse fra l’armate squadre

            seco o a imparar qualch'arte liberale:

            maperché in altri affar viene allevata,

            per l'educazion poco è stimata.      

Se il padre ponesse maschi e femmine sullo stesso piano, queste ultime potrebbero di mostrare di non essere in nulla inferiori ai fratelli. Ma ciò non avviene e ciò che alle figlie viene negato per prima è l’educazione. Lo studio. La conoscenza. 

Ma la critica di Elena Cassandra Tarabotti non si rivolge solo al padre. Negli altri libri la sua critica diventa sociale e persino teologica. Non è scritto da nessuna parte, dice suor Arcangela, che Dio pretenda il «far sacrificio di vergini rinchiuse a forza» e promuova «verginità del corpo imprigionato con la contrazione del cuore vagante». 

Sul piano sociale, gli strali di Elena Cassandra Tarabotti si rivolgono alla società italiana e in particolare a Venezia, che si vanta della sua laicità ma non impedisce in alcun modo, anzi accetta con favore, il sacrificio delle vergini. Ben altro, scrive la monaca per costrizione, avviene oltre le Alpi, nelle tante città e nazioni dove le donne hanno un ruolo sociale ben più dignitoso, anche se molto lontano dalla parità col genere maschile.

Si potrebbe pensare che Elena Cassandra Tarabotti sia, a sua volta, un fulmine nel cielo buio e sereno della «società del seicento è senza alito di muliebrità». Ma forse non è così. I suoi libri, come abbiamo detto, sono pubblicati a cura del fondatore maschio dell’Accademia degli Incogniti. E, dunque, i loro contenuti sono in qualche modo fatti propri o almeno tollerati, non condannati anche da istituzioni culturali di chiara impronta maschile (nelle Accademie è vietato l’ingresso alle donne). Inoltre circolano a Venezia e chissà se non giungano alle orecchie e al cuore del colto e sensibile di Giovan Battista Cornero Piscopio, padre di Elena Lucrezia, che è nato nel 1613 e, dunque, è quasi coetaneo di suor Arcangela. Essendo un uomo molto colto, con una ricca biblioteca ed è persona molto in alto nelle istituzioni della Serenissima Repubblica. Difficilmente le rivendicazioni messe per iscritto da Elena Cassandra Tarabotti possono essergli sfuggite. E ancor più difficilmente possono essergli state indifferenti. 

Ma di questo parleremo in seguito. Per ora verifichiamo che ci sono altre donne nel panorama culturale italiano. E di non minore determinazione di Suor Arcangela. 

Una è la pittrice Artemisia Gentileschi che, nata a Roma nel 1593 muore a Napoli nel 1653. È la prima donna a essere ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, che per una pittrice costituisce una sorta di laurea.

Le vicende di Artemisia sono drammatiche. È figlia d’arte. Suo padre, Orazio, è infatti un valente pittore, di scuola caravaggesca. Ma è anche un genitore attento, capace di andare oltre gli stereotipi di genere. Si accorge che la figlia ha il tocco dell’artista e la incoraggia attivamente a dedicarsi alla pittura. Lui stesso le è maestro. Ma per la prospettiva la manda a lezione di un altro valente pittore, Agostino Tassi. Non lo avesse mai fatto. Il maestro si trasforma in mostro e violenta la ragazza.

Ancora una volta la famiglia Gentileschi supera ogni conformismo e trascina Tassi in tribunale. Mossa troppo ardita per quei tempi. La causa viene discussa nel 1612. Il tribunale trasforma Artemisia da vittima in accusata, sottoponendola anche ad autentiche torture per accertare, dice, la veridicità delle sue affermazioni. La ragazza si sottopone con coraggio alle prove. Ma alla fine vince il pregiudizio. Agostino Tassi viene assolto.

Artemisia e il padre Orazio non si arrendono. La ragazza continuerà a dipingere e, cosa rara per una donna che ha subito violenza, si sposa e si trasferisce da Roma a Firenze. Anche il marito, Pierantonio Stiattesi, è un pittore. Ma di minor valore. Tant’è che lui non viene ammesso all’Accademia che “laurea” Artemisia.

Nella città toscana la pittrice conosce Michelangelo Buonarroti “il giovane” e, soprattutto, Galileo Galilei. Un incontro che segna anche la sua pittura. Basta osservare uno dei suoi capolavori, Giuditta che decapita Oloferne, per rendersi conto ai tratti tipici di una (splendida) seguace di Caravaggio aggiunge le geometrie e lo studio scientifico (della parabola, per esempio) di Galileo.

Lasciato il marito, Artemisia vive da donna indipendente e cambia spesso residenza, prima di approda a Napoli, dove muore nel 1653. La sua fama è molto superiore a quella di suor Arcangela. Artemisia ha dimostrato di non essere affatto «inferior né disuguale» ai colleghi maschi. Con loro si misura alla pari, sui loro stessi temi all’avanguardia della ricerca pittorica e uscendo fuori dagli schemi della peinture de femme cui sono costrette o si costringono le pittrici (poche, ma non pochissime) della prima parte del Seicento.

Artemisia per il suo coraggio artistico e civile fa parlare di sé tutta l’Europa. Quando la pittrice muoreElena Cassandra Tarabotti da un anno ed Elena Lucrezia Cornaro Piscopia ne ha otto, di anni.

La Firenze nella seconda parte del Cinquecento continua a essere una città molto viva sul piano culturale. Ed è lì che, nel 1557 nasce Maddalena Salvetti. Sia la famiglia del padre, Salvetto Salvetti, che della madre, Lucrezia Niccolini, appartengono alla nobiltà fiorentina. Non sappiamo dove e come sia avvenuta l’educazione di Maddalena. Sappiamo solo che la sua cultura spazia dalla letteratura alla filosofia alla teologia. E che la sua attività intellettuale continua, cosa rara (ma non rarissima, come testimonia Artemisia Gentileschi), anche dopo il matrimonio e la nascita del suo unico figlio, Marco. Maddalena è in stretto contatto Pietro Angeli da Barga, rettore dello Studio (l’università) di Pisa. Segno che le porte dell’università, oltre che delle accademie, sono sì chiuse alle donne. Ma ogni tanto possono anche socchiudersi, Nel 1590 Maddalena Salvetti pubblica la sua opera più famosa, le Rime Toscane. Un’opera che testimonia come Maddalena frequenti, in maniera creativa, la letteratura più avanzata e sia al passo con i poeti di maggior spicco, come Torquato Tasso o Gabriello Chiabrera. 

Maddalena Salvetti muore nel 1610.

Un’altra poetessa di notevole caratura e frequentatrice, come Maddalena, della filosofia e della teologia è Margherita Sarrocchi, nata a Gragnano in Campania nel 1560. Margherita appartiene a una famiglia borghese benestante, ma resta presto orfana. Ha per maestro il cardinale Bartolomeo Chioccarelli, con cui si trasferisce a Roma, dove perfezione la sua enciclopedica educazione. Sa di greco e di lettere, di filosofia e di matematica (ha per maestro Luca Valerio). Di lei si dice che sia amica e poi amante e poi nemica di Gianbattista Marino. È una donna indipendente, anche culturalmente. La sua opera principale è La Scanderbeide, dedicata al patriota albanese Giorgio Castriota, più noto come Scanderbeg. 

Margherita Sarrocchi è molto amica anche di Galileo Galilei. E soprattutto molto addentro alla scienza galileiana. Ne sono testimoni lo stesso Luca Valerio. Ma ecco cosa le scrive, a proposito, l’architetto Guido Bettoli da Perugia il 4 giugno 1611, a un anno e poco più dalla pubblicazione del Sidereus Nunciusda parte di Galileo:

 

         Li mirabili effetti che di continuo si odono del cannone, o occhiale che dir volemo, del S.r Galileo Galilei, di continuo dà da dire ad ogn'uno l'openione sua, mi ha fatto esser prosuntuoso di pigliar la penna et far riverenza a V. S., et pregarla a favorirmi del'openion sua. Essendo ella perfettamente compita d'ogni scienza, ne spero perfetta notitia del vero, poichè di già anc'ella n'haverà fatto mille prove et sentito intorno a ciò il giuditio di molti, essendo la casa sua ricorso et academia d'i primi virtuosi di Roma, et con il suo perfetto giuditio et sapere haverne determinato la verità.   

            

Dunque, Margherita Sarrocchi è accreditata come persona che sa, per molte ragioni, della “nuova astronomia” nata con l’occhiale (il telescopio) di Galileo.

Tra le molte ragioni che rendono la signora napoletana addentro alle cose galileiane vi è il pittore Ludovico Cardi, detto il Cigoli. Entrambi, Ludovico e Margherita, si confrontano sulle questioni di pittura con quello che John Milton ha chiamato “l’artista toscano” e che Erwin Panofsky ha eletto a “critico d’arte”. Ed è all’esperto di letteratura, Galileo Galilei, che Margherita Sarrocchi si rivolge con una lettera del 29 luglio 1611:

 

In quanto a quello che V. S. me scrive delle pitture et del poema, sì io come il Sig.r Luca ci appigliamo al suo consiglio, perchè, oltre al purgato giudicio che sappiamo che ha V. S., ella, che è costì nel negotio, sa meglio gli humori, et per consequenza come si devono le cose guidare. Dico bene a V. S. che il favore che io prencipalmente desidero da lei, è che rivegga il mio poema con quella diligenza che sia maggiore et con occhio inimico, acciò che ella vi noti ogni picciolo errore: et creda che io lo dico davero, et che tutto quel male die ella me ne dirà io lo pigliarò a segno di gran bontà et di grande affettione, perchè il nostro Signore Iddio mi ha fatto gratia che io non sono inamorata punto delle miei compositioni, et mi ha fatto conoscere che sì come la stampa mostra il saper de gli huomini, così alcuna volta mostra il poco giudicio; là onde io, che non vorrei incorrere in simile errore,in propria causa advocatum quero. Riveduto poi che l'haverà V. S., se le parerà cosa conveniente, circa alla dedicatione potrà d'esso fare quello che più le piacerà, chè io me rimetto in tutto et per tutto al suo sano consiglio.

         […]

                                                              Serva Affettionatiss.a

                                                           Margherita Sarrocchi de Biragh[i].

La lettera testimonia non solo la fama di Galileo critico letterario, ma anche la notevole consuetudine di Margherita Sarrocchi con lo scienziato toscano. E non è certo l’unica. Anzi è una delle tante lettere di un epistolario piuttosto nutrito, tanto da meritarsi una recente monografia da parte di Meredith Ray. In poche parole, Margherita Sarrocchi, è parte (attiva) delle élite culturali italiane d’inizio Seicento. Morirà nel 1617 (o, secondo alcune fonti, nel 1618).

Ma ritorniamo a Venezia, dove nel 1571 nasce Lucrezia Marinelli: un’altra figura femminile che spicca nel panorama culturale italiano del XVII secolo. Anche in questo caso è il padre Giovanni (medico), insieme al fratello, Curzio (anch’egli medico) a non ostacolare e anzi a favorire la vocazione per gli studi della ragazza.  Come scrive Giovanni Stringa, nel 1604, Lucrezia Marinelli, 

 

            standosene nella sua camera tutto il giorno rinchiusa, e attendendo con vivo spirito a gli studi de le belle lettere, vi ha fatto meraviglioso profitto

 

Già, perché queste erano le condizioni delle donne che volevano studiare tra la fine del Cinquecento e il Seicento: chiuse e (abbastanza) isolate. O in casa o in convento. Come capita a quasi tutte le donne (e gli uomini) intellettuali di questo periodo, la loro cultura è eclettica. Lucrezia Marinelli si occupa di letteratura, filosofia, musica. 

La prima opera letteraria che Lucrezia pubblica è La Colomba Sacra, data a stampa nel 1595. È un poema eroico che, dato non secondario, contiene quattro sonetti che lodano l’autrice firmati da quattro maschi: Giuseppe Policreti, Bonzio Leoni, Teodoro Angelucci e Giovanni Maria Avanzi. Segno che anche Lucrezia è partecipe dei circoli intellettuali della città. Tant’è che nel 1600 è lo stampatore della (seconda) Accademia Veneziana a pubblicare il libro più importante di Lucrezia Marinelli Le nobiltà, et eccellenze delle donne: et i diffetti, e mancamenti de gli huomini

Una rivendicazione “femminista” – una sorta di manifesto – che precede nella medesima città di Venezia quella gridata di Elena Cassandra Tarabotti e quella, più pacata ma non meno forte, che si accinge a compiere Elena Lucrezia Cornaro Piscopia. 

Lucrezia Marinella si sposerà e diventerà madre. Rallenterà la sua produzione letteraria già a partire dal 1606 e morirà a Venezia nel 1653. Lo stesso anno di suor Arcangela.  Il suo nome e il suo pensiero non passano inosservati nella casa della piccola Cornaro Piscopia.

 

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