CULTURA

La costituente che liberò le donne

Per gli italiani, lei è “quella della Legge Merlin”. Un’etichetta ingombrante e allo stesso tempo riduttiva, che nasconde una straordinaria figura di donna, appassionata politica, prepotentemente impegnata a favore dell’affermazione dei diritti senza distinzioni e a difesa dei più deboli.

Angelina faceva la maestra a Padova, la città nella cui provincia era nata nell’ottobre del 1887. Maestra elementare come sua madre, Giustina Poli. Suo padre Fruttuoso Merlin, invece, era segretario comunale in paese, a Pozzonovo, ma la ragazza era cresciuta per lo più a Chioggia con la nonna, e attraverso i suoi racconti aveva conosciuto il patriottismo del bisnonno e il fervore antiaustriaco del nonno. Aveva conseguito la maturità magistrale alla Scuola “Fusinato” di Padova e si era poi trasferita a Grenoble, dove aveva studiato lingua e letteratura francese. Tornata in Italia, nel 1914 affrontò all’Università di Padova l’esame per ottenere l’abilitazione all’insegnamento alle scuole medie proprio di quella lingua; i suoi risultati all’esame furono brillanti e il 1° giugno 1914 le fu rilasciato l’attestato.

Eppure, Angelina continuò a fare la maestra dei più piccoli. Amava il suo lavoro e così non smise di insegnare neanche dopo essere stata estromessa dall’impiego. Era ormai infatti il 1926 e i dipendenti pubblici erano obbligati a fare giuramento al fascismo. Ma Lina si era rifiutata. Anzi, cinque anni prima aveva anche declinato l’invito di un amico ad aggregarsi al movimento fascista e per contro si era iscritta invece al Partito socialista, spinta dal suo senso di giustizia. “Pacefondaia” la chiamavano in famiglia.

Iniziò dunque a collaborare con diversi giornali, come L’eco dei lavoratori e La difesa delle lavoratrici, ai quali contribuì con articoli sul diritto di voto, la condizione femminile, la prostituzione: “Quando la donna comprenderà ch’ella è parte, e non la meno trascurabile, della classe degli sfruttati, parteciperà alla lotta contro il regime che la opprime” scriveva nel marzo del 1922.

Senza comunque perdere d’occhio la propria iniziale missione, nel 1919 si era iscritta al corso di perfezionamento per insegnanti all’Università di Padova, che però non era poi riuscita a terminare, probabilmente presa dai numerosi impegni politici. Il suo carattere sanguigno e la sua perseveranza, infatti, l’avevano messa in luce fra i compagni di partito, tanto che nel 1924 le fu affidato il compito di gestire la campagna elettorale in Veneto: proprio a lei, donna, più di vent’anni prima che le donne italiane conquistassero il diritto al voto. E anche in quella occasione, la passione di Angelina la spinse oltre i suoi doveri, facendole stilare per Giacomo Matteotti un documento in cui si denunciavano gli episodi di violenza da parte degli squadristi nel territorio padovano. Il politico rodigino sarebbe stato ucciso nel giugno di quello stesso anno proprio da una squadra fascista.

Nel 1926, dopo che Lina aveva rifiutato pubblicamente di aderire al regime, il suo nome era stato iscritto nell’elenco dei sovversivi e affisso pubblicamente a Padova. Era scappata allora a Milano, ma là era stata arrestata e condannata dal Tribunale speciale a cinque anni di confino in Sardegna. Licenziata, con il divieto di insegnare nella scuola italiana e fascista, Lina si mise allora a dare privatamente lezioni alle donne di quell’isola, a quel tempo povera e arretrata: insegnava loro a leggere e a scrivere, indicando così la via verso il riscatto sociale. Grazie a una riduzione della pena, riuscì a rientrare a Padova nel 1929, per poi trasferirsi l’anno successivo a Milano, dove incontrò l’amore della sua vita, il socialista polesano Dante Gallani, che sposò ma che la lasciò vedova prestissimo. Dal 1936 iniziò a impegnarsi attivamente nella lotta antifascista: la sua casa di via Catalani divenne luogo di riunioni clandestine, alle quali partecipavano personaggi come Sandro Pertini, Lelio Basso, Rodolfo Morandi e Claudia Maffioli.

Con l’8 settembre 1943 entrò nella Resistenza e organizzò con altre antifasciste i Gruppi di Difesa della donna, fu fra le fondatrici dell’Unione delle Donne italiane e nel 1945 venne nominata vicecommissario alla Pubblica istruzione nel Comitato di Liberazione nazionale lombardo. Il 1946 fu l’anno in cui, eletta all’Assemblea costituente, fu chiamata a fare parte della commissione incaricata di redigere la Costituzione italiana.

A proposito di questo straordinario privilegio, e di questa enorme responsabilità, venne intervistata da Enzo Biagi nel 1969; interrogata su quale fosse l’articolo della Costituzione a cui sentiva di aver dato un maggior contributo, Angelina affermò sicura: “L’articolo dell’uguaglianza fra i cittadini di fronte alla legge! Era stato proposto questo: Tutti i cittadini della Repubblica sono uguali innanzi alla legge senza distinzioni di censo, di religione, eccetera, e allora io proposi: Mettete anche senza distinzioni di sesso!”. Era l’articolo 3, uno dei principi fondamentali della Costituzione. Questa sua richiesta si rivelò non banale e molto lungimirante, oltre che coraggiosa e giusta nell’immediato: a questa precisazione nell’articolo 3 si sono potute infatti riferire, negli anni successivi, tutte le battaglie sul diritto di famiglia e l’uguaglianza sul lavoro.

Il 10 giugno 1948 Lina fu la prima donna a parlare in Senato, eletta nel collegio di Adria. Ad agosto, presentò un disegno di legge per l’abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia, che comportava la chiusura delle “case di tolleranza” e l’eliminazione della schedatura delle prostitute. Il contesto in cui Lina fece questa coraggiosa richiesta era rovente: un’Italia arretrata e bigotta in cui le donne avevano appena conquistato il diritto al voto e il ministro dell’interno Mario Scelba, a giugno, aveva vietato l’uso del bikini nelle spiagge. Lina Merlin diede comunque inizio alla sua battaglia di civiltà per l’emancipazione femminile. Prese il via così, nelle aule di Camera e Senato, un lungo iter parlamentare che avrebbe visto la sua conclusione positiva solo nel 1958, anno di svolta per il costume italiano.

Questa battaglia costò a Lina pesanti insulti e continui attacchi, non solo da parte degli uomini di altri partiti, ma anche dei suoi compagni. Intervistata da Oriana Fallaci nel 1963, raccontò: “Un giorno vado a tenere una conferenza in una sede del PSI a Milano e, appena entro, qualcuno mi infila una busta gialla tra le mani. La apro e c’è scritto: Compagna, pensa al male che fai con la tua legge: dove può andare un vedovo vecchio e gobbo se non in quelle case? Lo raggiungo al tavolo e dico: […] Compagno, come può fare una vedova vecchia e gobba che non sa dove procurarsi un bel giovanotto? […] Se voi ritenete che quello sia un servizio sociale, e i cittadini maschi abbiano diritto a quel servizio sociale, allora istituite il servizio obbligatorio per le cittadine dai vent’ anni in su”. Fiera e combattiva, mai stanca di argomentare, Lina.

E non si fermò qui. Il suo impegno politico e sociale s’indirizzò anche a favore del Polesine, una delle aree più povere d’Italia, per la quale sostenne la necessità di una bonifica integrale del territorio e a favore della quale profuse ogni energia, soprattutto dopo la disastrosa alluvione del 1951. Quell’anno il Po, furioso, era esondato e aveva trasformato il territorio in un ammasso di fango e acqua, provocando quasi un centinaio di morti e quasi 200.000 senzatetto.

Le sue tenaci e coerenti battaglie politiche a favore degli ultimi, degli oppressi, di chi si vedeva negati i diritti, la portò a proporre leggi per l’abolizione del carcere preventivo, l’eliminazione della sigla N. N. apposta sui certificati di nascita dei figli non riconosciuti dal padre, per il trasferimento delle carcerate negli ospedali per partorire; lottò per ottenere che le donne potessero iniziare a scontare la pena dopo il compimento dei due anni del figlio, perché avessero il diritto a un parto indolore, e perché non venissero licenziate per giusta causa se si fossero sposate.

Fu l’unica donna eletta nella seconda legislatura: “Si diceva che il Senato avesse una donna sola, ma una di troppo” affermò nel 1957, e venne eletta alla Camera dei deputati nel 1958. ;Nel 1961, dopo aver saputo che il suo partito non l’avrebbe più sostenuta alle elezioni, bruciò la tessera. Lasciò la vita politica definitivamente da lì a pochi anni, e si dedicò alla scrittura della sua autobiografia. Morì a Padova nel 1979.

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